Il destino del carattere

II destino del carattere



Ventisei lettere contro 70.000 caratteri: adattare la tastiera occidentale a una lingua radicalmente diversa era una sfida enorme. Chu Bong-Foo l’ha raccolta volentieri, per rendere la storia della cultura cinese accessibile alle nuove generazioni.

Come nasce il suo interesse?
Dopo essermi laureato a Taiwan lavorai per otto anni all’estero e nel 1972 mi trovavo in Brasile. Un giorno nella casa editrice in cui lavoravo si liberò un posto di alto livello. Mi feci avanti io, ma mi appiopparono un lavoretto di quelli da fare di corsa: più di 200.000 parole in portoghese da stampare e far uscire in giornata. Ero sbalordito. A Taiwan avevo imparato che consegne di quella portata richiedevano almeno diversi mesi di lavorazione. Non avendo il coraggio di ribattere consegnai il manoscritto ai dattilografi, una ventina di persone che immediatamente si misero all’opera e in meno di due ore avevano già battuto l’intero manoscritto da mandare in tipografia.

Come mai tanto stupore?
Data la complessità degli ideogrammi, all’epoca la Cina doveva ancora mettere a punto una macchina per scrivere standard. La maggioranza di lettere e documenti era ancora vergata a mano e la produzione su larga scala di carta stampata imponeva il ricorso a una gigantesca stampatrice, con serie infinite di tipi di piombo.
A dispetto di una cultura antica migliaia di anni, la Cina non aveva insomma accesso al nuovo, e senza le moderne tecniche di stampa istruzione ed educazione non andavano avanti. In quel momento mi posi il problema di come si sarebbero potuti battere 200.000 e passa caratteri cinesi in due ore. L’anno successivo tornai a Taiwan in cerca di una soluzione.

Da dove cominciò a costruire la sua tastiera?
Per inserire le decine di migliaia di caratteri cinesi attraverso le 26 lettere di una normale tastiera era necessario smontare ciascun carattere e individuare un metodo per batterlo “alla cieca”, con dieci dita e senza guardare. Mi comprai dei dizionari – alla fine parecchie decine – da cui ritagliai ogni singolo carattere e lo “riorganizzai” seguendo diversi sistemi di classificazione. Conoscevo piuttosto bene la storia cinese, perciò ero consapevole dell’importanza di concetti quali lo yin e lo yang (luna e sole, secondo la rappresentazione cinese) e i cinque elementi, perciò presi i caratteri corrispondenti a luna, sole, metallo, legno, acqua, fuoco e terra e li elessi a prime sette “lettere”. Consultai anche tutta la documentazione possibile sullo sviluppo degli ideogrammi cinesi, le trasformazioni che avevano subito sotto le varie dinastie, e mi tuffai nelle opere di grandi studiosi sistematizzandole e prendendo appunti. Scelsi così altre 17 “lettere” in base alla loro funzione nella lingua cinese, e ai restanti due tasti assegnai caratteri e funzioni misti.
Dopodiché studiai il modo in cui gli antichi avevano costruito gli ideogrammi, dividendo ciascuno in “prefisso" e “radice” sulla scorta di quanto avevo appreso. Il prefisso avrebbe richiesto due battute, la radice tre, per un totale di cinque battute a carattere per ogni carattere. Le permutazioni così generate erano sufficienti per replicare il prefisso e la radice contenuti in ciascuno degli oltre 8000 caratteri più usati.

Come utilizzò le sue scoperte?
Nel 1978 uscì il primo metodo di inserimento Cangjie. Pur di diffonderlo lo feci circolare rinunciando a qualunque forma di diritto d’autore, ma purtroppo all’epoca Taiwan doveva ancora riconoscere l’importanza della creazione di standard adeguati nell’ambito delle tecnologie informatiche e considerava i metodi di digitazione alla stregua di una merce qualsiasi. Per questo motivo a tutt’oggi tra Hong Kong, Taiwan e la Cina continentale esistono oltre 10.000 metodi diversi.
Da allora ho comunque lavorato a più riprese con aziende del settore, sia taiwanesi sia di Hong Kong, così come con istituti di ricerca scientifica in Cina, e il risultato di questi sforzi è stato la nascita dei primi microcomputer linguistici cinesi. Nel 2003, poi, per il Multilingual Character Generating Engine (motore multilingua per la generazione dei caratteri) è stata messa a punto la prima CPU del mondo completamente in cinese. Il Multilingual Character Generating Engine è infatti capace di creare caratteri cinesi utilizzando direttamente l’unita centrale di elaborazione.

Perciò il suo obiettivo qual è?
Il mio obiettivo resta il medesimo, sia nella ricerca sui metodi di digitazione degli ideogrammi, sia nell’ambito dei sistemi operativi e dei software cinesi: trasformare questi caratteri in una delle lingue dell’era informatica. Gli ideogrammi cinesi sono una miniera di tesori, una delle arterie attraverso cui scorre il pensiero dell’uomo. Dissezionandoli possiamo comprendere fino in fondo come funziona questa arteria. Il carattere per «pensiero» (nian), ad esempio, è composto dalla radice «cuore» (xin) e dal prefisso «ora» (jin), perciò il significato diventa «pensare nel momento presente». In modo analogo, il carattere per «fiducia» (xin) si compone della radice «essere umano» (ren, «forma animale superiore») e del prefisso «parole» (yin), da cui si evince che il significato è «il potere vincolante delle parole umane».
Se riusciamo a insegnare ai computer a usare la stessa logica utilizzata inizialmente per creare gli ideogrammi, allora il cinese può diventare il primo veicolo di informazioni a fornire una comprensione meccanica e una comunicazione a due sensi fra la macchina e l’uomo, in pratica ciò che spesso viene chiamato «intelligenza artificiale».
È uno degli aspetti che con i miei 15 collaboratori sto curando nell’ambito di una ricerca concentrata su un sistema automatizzato testo-immagine. Una volta messo a punto, mi piacerebbe prendere i classici della letteratura cinese, per esempio Il sogno della camera rossa, e convertirli in forma animata usando questo software di nuovo sviluppo. A questo punto li farei circolare senza troppe restrizioni, per un modico compenso, in modo da consentire ai bambini impossibilitati a ricevere un’istruzione di fruire di alcuni tra i migliori prodotti della cultura cinese.

Perché non ne ha approfittato per far fortuna?
Personalmente considero i caratteri cinesi un’eredità universale. Appartengono a chiunque li comprenda, chi sono io per approfittarne? Per questo ho pubblicato tutti i risultati delle mie ricerche su internet: per poterli condividere. Penso che la tecnologia informatica dovrebbe essere trattata come una missione culturale e non come un prodotto commerciale da sfruttare e far rendere.
Certo, i brevetti devo conservarli per evitare sfruttamenti indebiti, ma il commercio non mi appassiona affatto e non ho il benché minimo interesse per le vendite e le strategie di marketing. Mi piace la ricerca, tutto qui. Quando non ho i fondi per farla vado a frugare nello scatolone delle mie invenzioni e ne cerco una da vendere, per procacciarmi i soldi. Forse qualcuno mi giudicherà un pazzo, uno che non conosce il significato di parole come fama e successo, e qualcun altro mi darà del nazionalista cinese. Io però credo che il mio vero destino stia nel dare ulteriore e piena realizzazione al valore intrinseco della lingua cinese.

Chu Bong-Foo in conversazione con Ching Wa Wong

Questo articolo è tratto da PATEK PHILIPPE, Rivista Internazionale dei prestigiosi orologi PATEK PHILIPPE di Ginevra.